Un solo termine per definire Blues
Funeral? Intenso.
E’ il 2012 e Mark Lanegan nella sua
carriera ha praticamente detto e fatto tutto.
Forse possiamo definirlo come il Dave
Grohl dell’underground
per la poliedricità e prolificità degli ultimi anni. Nonostante il
suo incedere sornione, infatti, Lanegan è al centro dei progetti più
sperimentali e curiosi del rock dell’ultimo decennio. Dopo le
collaborazioni con Josh Homme nei QOTSA, Greg Dulli (The Glimmer
Twins), Isobel Campbell, si è da ultimo persino cimentato con alcuni
nuovi brani per il box-set dei Mad Season (di prossima uscita e che
meriterà sicuramente un racconto a sé).
Tuttavia, un conto sono le
collaborazioni ed un altro è un disco solista.
Inoltre, dopo Bubblegum (capolavoro
del 2004) era obiettivamente difficile ripetersi.
Mark allora decide di virare verso
nuove sponde, verso un’idea diversa di Rock. E per farlo coinvolge
una figura ormai leggendaria come Alain Johannes, produttore,
pluri-musicista, interprete e mente di numerosi successi degli ultimi
anni (Queens of the stone age e Them crooked Vultures), accompagnati dietro le pelli, dalla genialità
ritmica di un immenso Jack Irons (Pearl Jam).
Questo connubio dà vita ad un sound
acido e scostante, caratterizzato dal massiccio uso di drum-machine,
sinth e sonorità fortemente elettroniche.
Il risultato è uno strabordare di suoni, idee ed immagini che inizialmente sconvolgono per la loro novità, ma che a lungo andare, come nei migliori album, ammaliano e conquistano l’ascoltatore. E’ una festa quella messa in opera da Lanegan. Sì, ma una festa funerea.
La sua voce rauca, profonda e calda
prende per mano e ci accompagna in un viaggio tenebroso attraverso le
oscurità della sua mente che forse, al termine del cammino, ci
accorgiamo essere anche le nostre.
Ed è un piacere farsi guidare, perché lo spettacolo che ci si para davanti è di quelli indimenticabili.
Gravedigger’s song,
singolo ed apripista dell’album, ha un incedere ritmico vorticoso e
conturbante: sembra di scendere e risalire di continuo dagli inferi
(ed il video d’accompagnamento di certo non mette a proprio agio),
ma è una gioia farlo perché si è certi di uscirne appagati.
E’ il canto di un amore eterno,
sublimato in questo ritornello francese: “Tout
est noir, mon amour Tout est blanc, Je t'aime, mon
amour, Comme j'aime la nuit".
Questa volta ho anche una canzone
preferita: è St.Louis
Elegy. Strappalacrime,
dolcissima e allo stesso tempo profondamente blues. Una canzone
spirituale
e preziosa: “se
le lacrime fossero liquore, mi sarei ubriacato fino a morirne".Il brano più controverso dell’album
però, è certamente “Ode
to sad disco” (che
contiene elementi da Sad
Disco del danese Keli
Hlodversson). Anch’io
stavo finendo per cadere nel tranello di odiare l’intero Lp anche
solo per la presenza di questo pezzo caustico e duro da digerire a
causa dei suoi tratti fortemente dance. Poi però, lentamente, ne
sono rimasto attratto.
E’ la canzone paradigma di un album
per molti versi provocatorio ed innovatore, pur restando
profondamente nel solco rock cui Lanegan ci ha abituati.
Sarò brutale: Blues Funeral è il mio album dell’anno (come anticipato assieme a Koi no yokan dei Deftones e Nocturniquet dei Mars Volta) semplicemente perché adoro ascoltarlo fino al punto da non riuscire, dopo un anno intero, a togliermelo dalla testa!
VOTO: 8,5
P.s.
La copertina, meravigliosa, è un
richiamo evidente a “Power,
Corruption and Lies”,
secondo album dei New Order.
E’ un caso?