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sabato 30 marzo 2013

MARK LANEGAN - Blues Funeral


Un solo termine per definire Blues Funeral? Intenso. 
 
E’ il 2012 e Mark Lanegan nella sua carriera ha praticamente detto e fatto tutto.
Forse possiamo definirlo come il Dave Grohl dell’underground per la poliedricità e prolificità degli ultimi anni. Nonostante il suo incedere sornione, infatti, Lanegan è al centro dei progetti più sperimentali e curiosi del rock dell’ultimo decennio. Dopo le collaborazioni con Josh Homme nei QOTSA, Greg Dulli (The Glimmer Twins), Isobel Campbell, si è da ultimo persino cimentato con alcuni nuovi brani per il box-set dei Mad Season (di prossima uscita e che meriterà sicuramente un racconto a sé).
Tuttavia, un conto sono le collaborazioni ed un altro è un disco solista.

Inoltre, dopo Bubblegum (capolavoro del 2004) era obiettivamente difficile ripetersi.

Mark allora decide di virare verso nuove sponde, verso un’idea diversa di Rock. E per farlo coinvolge una figura ormai leggendaria come Alain Johannes, produttore, pluri-musicista, interprete e mente di numerosi successi degli ultimi anni (Queens of the stone age e Them crooked Vultures), accompagnati dietro le pelli, dalla genialità ritmica di un immenso Jack Irons (Pearl Jam).
Questo connubio dà vita ad un sound acido e scostante, caratterizzato dal massiccio uso di drum-machine, sinth e sonorità fortemente elettroniche.
 

Il risultato è uno strabordare di suoni, idee ed immagini che inizialmente sconvolgono per la loro novità, ma che a lungo andare, come nei migliori album, ammaliano e conquistano l’ascoltatore. E’ una festa quella messa in opera da Lanegan. Sì, ma una festa funerea.
La sua voce rauca, profonda e calda prende per mano e ci accompagna in un viaggio tenebroso attraverso le oscurità della sua mente che forse, al termine del cammino, ci accorgiamo essere anche le nostre.

 

Ed è un piacere farsi guidare, perché lo spettacolo che ci si para davanti è di quelli indimenticabili.

Gravedigger’s song, singolo ed apripista dell’album, ha un incedere ritmico vorticoso e conturbante: sembra di scendere e risalire di continuo dagli inferi (ed il video d’accompagnamento di certo non mette a proprio agio), ma è una gioia farlo perché si è certi di uscirne appagati.
E’ il canto di un amore eterno, sublimato in questo ritornello francese: “Tout est noir, mon amour Tout est blanc, Je t'aime, mon amour, Comme j'aime la nuit". 


Questa volta ho anche una canzone preferita: è St.Louis Elegy. Strappalacrime, dolcissima e allo stesso tempo profondamente blues. Una canzone spirituale e preziosa: “se le lacrime fossero liquore, mi sarei ubriacato fino a morirne".Il brano più controverso dell’album però, è certamente “Ode to sad disco” (che contiene elementi da Sad Disco del danese Keli Hlodversson). Anch’io stavo finendo per cadere nel tranello di odiare l’intero Lp anche solo per la presenza di questo pezzo caustico e duro da digerire a causa dei suoi tratti fortemente dance. Poi però, lentamente, ne sono rimasto attratto.
E’ la canzone paradigma di un album per molti versi provocatorio ed innovatore, pur restando profondamente nel solco rock cui Lanegan ci ha abituati.


Sarò brutale: Blues Funeral è il mio album dell’anno (come anticipato assieme a Koi no yokan dei Deftones e Nocturniquet dei Mars Volta) semplicemente perché adoro ascoltarlo fino al punto da non riuscire, dopo un anno intero, a togliermelo dalla testa!

VOTO: 8,5

P.s. 
 
La copertina, meravigliosa, è un richiamo evidente a “Power, Corruption and Lies”, secondo album dei New Order. E’ un caso?

sabato 23 marzo 2013

BLACK REBEL MOTORCYCLE CLUB - SPECTER AT THE FEAST - (2013)



 Recensione a cura di Fabio S. 
 Ogni volta che esce un nuovo album dei BRMC vado un po’ in ansia, perché sin dal 2001, quando rimasi folgorato da “Whatever Happened to my Rock ‘n’ Roll, ho iniziato a seguirli senza mai abbandonarli, sviluppando una particolare affezione per questa band. Gli ho persino perdonato il terribile esperimento strumentale di The Effects of 666, ma vabè, una litigata in 12 anni ci sta tutta. Ansia perché nonostante abbiano sviluppato un loro preciso suono, le loro influenze sono così tante che ogni volta mi chiedo in che direzione vada il loro nuovo lavoro. In sostanza è ansia di rimanere delusi, di essere traditi. Ma basta un solo ascolto per liberarsi di ogni strano pensiero e di rilassarsi, perché “Specter at the Feast” è assolutamente meraviglioso

Le premesse c’erano tutte, perché a detta di Peter Hayes, quest’album nasce dalla loro anima più profonda, citando come principale ispirazione Spiritualized e Pink Floyd. Se si considera che la band è stata segnata dall’improvvisa morte di Michael Been, ingegnere sonoro storico della band, nonché padre di Robert Been, come non crederli.

Infatti, quest’album presenta il suono caratteristico del gruppo, ma portato ad un livello superiore di maturazione, profondità e intensità, o forse riporta, perché ricorda più i primi due album che gli ultimi. Si inizia con Fire Walker, traccia lunga e melodica, con il tipico basso distorto di Robert, insomma, un marchio di fabbrica. Segue la vivace Let the Day Begin, il loro omaggio alla scomparsa di Michael Been, dato che si tratta di una cover della sua ex band, i The Call.

Con le due tracce successive, Returning e Lullaby, si entra in modalità Pink Floyd. Entrambe rappresentano al meglio il concetto di anima espresso dalla band. La prima in particolare è sicuramente la traccia più triste, malinconica e struggente dell’album, con un testo molto profondo; una canzone quasi immacolata.
E’ tempo però di mettersi la giacchetta di pelle e le converse, perché con le prossime tre tracce si entra in zona punk/rock, come ci hanno sempre abituati. Hate the Taste alterna strofe più lente a ritornelli vivaci e aggressivi. Rival esalta invece la batteria di Leah Shapiro , che presenta infatti la ritmica più originale dell’intero album. Teenage Disease è cattiva e arrabbiata, con la cresta e le borchie, è la perfetta candidata a ereditare il testimone di inno punk della band, direttamente da sua maestà Whatever Happened to my Rock ‘n’ Roll. Yeah!!
Bene, vi siete sfuriati abbastanza? Spero di sì, perché è tempo di sedersi e abbassare le luci, perché Some Kind of Ghost rappresenta l’ennesimo marchio di fabbrica del gruppo, questa volta in chiave blues/folk, lento e tranquillo. E si procede con l’inno gospel dell’album, Sometimes the Light. Avevano citato Spiritualized come fonte di ispirazione no? Bene, eccoli. Questo brano non sfigurerebbe se venisse suonato durante una messa liturgica. Ma ci avevano abituati anche a questo, quindi perché meravigliarsi.

Ci avviamo verso la fine del disco, mancano tre tracce. Funny Games è carica di effetti: basso distorto, chitarra con reverber e delay, voce con echo; preludio perfetto al suono maledettamente grunge (oh si, goduria) di Sell It. Una canzone lunga e sporca, che potrebbe tranquillamente essere inserita in una raccolta di Seattle degli anni 90’. Ci piace, e tanto!
Ma ai BRMC non piace chiudere facendo “caciara”, infatti via tutti gli effetti, si torna a suoni puliti, a tonalità melodiche e malinconiche, che sfiorano il pop. Lose Yourself è la lunga (quasi 9 min) ballad con cui si chiude alla grande questo bellissimo album.
  

Conclusioni? Nati nel 1998, al loro settimo album, i BRMC possono solamente dare conferme ai loro fan. Partendo da tante e diverse influenze, sono sempre capaci di sfruttarle al meglio, gestendole con grande capacità, intelligenza e maturità, per dare vita al loro suono, che ormai è inconfondibile, e realizzare una piccola gemma come questa. Ce n’é un po’ per tutti i gusti insomma: alternative, punk, blues, folk, garage, psychedelic, gospel.... tutto magistralmente amalgamato, che da vita ad un suono che sicuramente continuerà ad ispirare tantissime band, come ha sempre fatto.

Che dire, I just love Black Rebel Motorcycle Club.

Best Tracks: Returning, Teenage Disease, Sell It.

Voto: 8

1) Fire walker 2) Let the day begin 3) Returning 4) Lullaby 5) Hate the Taste 6) Rival 7) Teenage disease 8) Some kind of ghost 9) Sometimes the light 10) Funny games 11) Sell it 12) Lose yourself

lunedì 18 marzo 2013

Deftones - Koi no yokan

 E’ dura cercare di essere obiettivi quando si è spudoratamente di parte. Allora provo solo a passarvi un concetto. Un’idea che mi è parsa chiara sin dal primo ascolto di “Koi no yokan e che in fondo è anche il tentativo più sincero di obiettività che posso offrirvi: i Deftones sono diventati leggendari.

Quest’album segna la linea di demarcazione tra una band significativa ed un gruppo immortale.

E non sto esagerando.

Questo era chiaro, ai più, sin dalla strepitosa opera precedente (Diamond eyes) che forse, per molti versi, è anche superiore a quest’ultima fatica. E allora perché arrivare a dire che i Deftones sono tra le migliori formazioni che il panorama rock degli ultimi 20 anni possa offrire? Semplice: solo le grandissime band sono capaci di ripetersi (questo è il loro 7° album!) ad altissimi livelli mantenendo saldo e riconoscibile il proprio sound e contemporaneamente a non scadere nel banale o “già sentito”.

In sostanza, ad evolversi.

E ciò in barba ai boriosi snob per i quali è impossibile eccellere senza “innovare” o creare per forza qualcosa di “rivoluzionario”. Ma anche dritto in faccia ai puristi del genere, pronti a storcere il naso alla prima “variazione sul tema”.

Insomma, Koi no yokan è tutto questo: è un disco chiuso, completo, che acquista carattere ad ogni nuovo ascolto (e scusate se è poco); ha un messaggio a tutto tondo (e proprio per questo non sto lì snocciolarvi come questa canzone sia meglio di quest’altra - benché Tempest e Leathers siano capolavori assoluti!) che in fondo è semplicemente l’amore per la musica. E questo, v’assicuro, traspare in ogni secondo dell’album attraverso un suono (a mio parere) ormai universale, che trascende i limiti di genere. Sicuramente duro (ok sì c’è Nu-metal e allora?), ma con inconfondibili venature melodiche (quelle di Chino) ed una linea ritmica mostruosa (anche se non fresca come in Diamond Eyes). Insomma un prodotto artistico del tutto unico, che risulta godibilissimo anche ai non amanti del genere.

Un disco da sorseggiare a più riprese, per gustarlo dall’inizio (dinamitardo con Swerve city) fino alla fine con i brani più eclettici (What Happened to you?).

Qualche curiosità. E' il secondo album senza Chi Cheng (ancora in riabilitazione dopo il terribile incidente del 2008 che lo tiene legato ad un letto..tieni duro Chi!) sostituito - egregiamente - da Sergio Vega (ex Quicksand). Mentre il titolo richiama un’espressione giapponese che non trova un'esatta traduzione in italiano, ma che dovrebbe avvicinarsi all'idea di “amore a prima vista”.

In breve? E’ il mio album del 2012, sul podio assieme alla struggente bellezza di “Blues funeral” di Mark Lanegan ed alla piena maturità di “Nocturniquet” dei Mars Volta.


VOTO: 8,5