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venerdì 26 aprile 2013

The Black Angels - Indigo Meadow (2013)



Recensione a cura di Fabio S.

Nati nel 2004 nel bel mezzo del deserto texano, i Black Angels sono sicuramente una delle band più interessanti del panorama rock/psichedelico degli ultimi 10 anni.

Sia il nome che il logo della band è un omaggio ai loro dei, ovvero i Velvet Underground, fonte di ispirazione infinita per tantissimi gruppi, di diverso genere.
Fanno gavetta suonando in importantissimi festival americani, il Lollapalooza tra tutti, dividendo il palco con grandi nomi come The Black Keys, The Brian Jonestown Massacre, The Warlocks, Wolfmother. Come lo stesso gruppo racconta, durante uno di questi festival Josh Homme dei QOTSA entrò con una bottiglia di tequila nel loro camerino e disse: ”I like your style”. E se c’è il timbro di Josh siamo tutti più tranquilli, no?!

Indigo Meadow” è il loro quarto album, il primo che vede la band in formazione ridotta, sono passati infatti da 5 a 4 membri. L’album continua in grandi linea un percorso iniziato con l’album precende, “Phosphene Dream” , nel senso che si distacca dalle sonorità più cupe e sinistre dei primi due album, per prediligere un suono più leggero e dinamico. Anche la lunghezza delle canzoni rientra in canoni più pop/rock (intorno ai 4 min), rinunciando così a quelle lunghe sezioni ritmiche che avevano caratterizzato i primi lavori.
A parte questo non mancano le caratteristiche tipiche della musica rock/psichedelica, come riff solidi e ripetitivi, ritmi tribali, sonorità orientali, sperimentazioni negli arrangiamenti. Ma ciò che si percepisce durante tutto l’ascolto dell’album e la forte componente anni ’60 e British. D’altronde i membri del gruppo non hanno mai nascosto la loro passione per The Beatles e The Kinks, e per il garage rock in generale. Ma i rimandi alle band anni 60/70 non finiscono qui: “Evil Things” ha un fortissimo marchio Black Sabbath, sia nel pesante riff di chitarra, sia nel cantato, che ricorda molto Ozzy. 



The Day” sa molto di Cream, soprattutto nella ritmica e nel coro del verso. Il riff di chitarra di “War on Holiday” ricorda invece moltissimo (forse troppo) Lucifer Sam dei Pink Floyd. Il mood fresco e dinamico del disco viene spezzato solamente con due tracce: “Always Maybe” e “Black isn’t Black”, che chiude l’album; entrambe rispolverano i ritmi bassi e i toni sinistri che avevano dominato nei primi due album.

Anche dal punto di vista dei testi non si parla solamente di droghe e visioni oniriche, temi caldi della psichedelica, ma bensì di un pò di tutto, dalla famiglia, ai viaggi, ai temi più seri come la politica. Ad es. dopo aver parlato della guerra del Vietnam nel loro primo album, questa volta con il singolo “Don’t Play With Guns” toccano il delicato tema dell’uso delle armi negli States.

Nel complesso “Indigo Meadow” è un album che grazie a delle sapienti fusioni suona allo stesso tempo moderno ma maledettamente retro, che non brilla per dei singoli eccellenti ma ogni singola traccia presenta a modo suo un particolare interessante, che può riguardare la ritmica, la voce, i riff, gli arrangiamenti, o altro. 

Ed e’ un album che senza dubbio si presta all’ascolto anche di chi non è un grandissimo fan della musica psichedelica. 

Sicuramente fa fare un ulteriore passo ai Black Angels per smuoverli dalla scena underground ed avvicinarli al mainstream. Non so se diventeranno mai un gruppo da grande pubblico, intanto si godono da headliners il festival di casa loro, l’Austin Psych Fest, come accade ormai da 6 anni a sta parte, in futuro, chi sa?


Best tracks: Evil Things, The Day, Broke Soldier




Voto: 7 
 

 
 

sabato 20 aprile 2013

APPINO - Bologna “Locomotiv” - (13.04.13) + The crazy crazy world of Mr Rubik




 Recensione a cura di Luca S.

 Appino con…sorpresa, iniziale!

Entusiasmo.
Ecco la sensazione che mi ha accompagnato nei giorni e nelle ore precedenti a questo live. Le premesse in fondo c’erano tutte: un buon disco, dei singoli forti e incisivi e un complesso di musicisti (sezione ritmica made in Teatro degli Orrori) di sicuro affidamento.
E...tranquilli, le premesse non sono state tradite!!

Quando si esce da un live con cd in mano e voglia di ascoltarlo in macchina vuol dire che il concerto è entrato dentro, che le note continuano a vibrare
 

La scaletta ovviamente è tutta contenuta nel disco di esordio da solista di Appino, “Il testamento”.

La band formata a posta per questa tourné di spalla ad Appino regge bene il palco, sprigiona suoni ed energia sostenuti dal tocco martellante di Franz Valente alla batteria.
Un'ora e un po’ di concerto volato via in fretta tra sensazioni forti, parole pesanti che galleggiano su note a volte distorte e a volte pulite.
Acustiche che non ti lasciano indifferente. Ti scuotono come ti scuote l’energia di Andrea Appino che si mette a nudo, esterna il suo passato, la sua giovinezza, e forse, un pizzico di sofferenza esistenziale. 

 
Si va dalla bellissima e incisiva “il testamento”, all’acustica “la festa della liberazione” passando per le distorsioni di “solo gli stronzi muoiono” e l’elettronica de “i giorni della merla”.
Unico appunto. Il pubblico non era numeroso, ma era un pubblico che comunque ha dato una chance ad un cantautore già affermato con gli “zen circus” ma pur sempre all’esordio come solista…forse un bis, un saluto in più sarebbe stato apprezzato. 
 
VOTO: 7

Ah…dimenticavo la sorpresa…inziale...

The crazy crazy world of Mister Rubik”, gruppo prodotto dall’etichetta “Locomotiv” (l’etichetta del locale dove si sono esibiti). Veramente veramente apprezzabili. Un mix tra i “Blonde Redhead”, Giovanni Lindo Ferretti e musiche etniche “sambeggianti”. Chitarre, sintetizzatori, basso e batterie concentrate in 3 musicisti che mettono insieme un live ricco di energia, di suoni e di ritmi molto particolari. Ma soprattutto ricco di bellissime idee musicali da far letteralmente saltare e ballare il pubblico che aspettava Appino. 



Grazie a loro i cd in mano alla fine del concerto erano due invece che uno, perché ne valeva davvero la pena. L’ultimo album si chiama “Urna elettorale”.
Segnamo dunque questo nome e teniamoli d’occhio, perché suoneranno in giro per lo Stivale e se vi capita meritano davvero una visita!

VOTO: 7

A presto con la recensione dell’album di Appino ;-)

martedì 16 aprile 2013

BLACK REBEL MOTORCYCLE CLUB - (27/03/13 ) - London (Brixton academy)


Recensione (e foto originali) a cura di Fabio S.

Con 7 album alle spalle, il trio di San Francisco può vantare ormai un notevole repertorio, grazie al quale riesce a dar vita ad un bellissimo concerto come questo della Brixton Academy, che come spesso accade ha registrato il tutto esaurito. E’ la quarta volta che vedo i BRMC, e rispetto alle scorse volte questo concerto è stato più lungo del solito, ben 2h e 15min, in cui hanno suonato ben 25 canzoni, e in cui come al solito hanno mostrato le loro diverse sfaccettature, dai pezzi più garage e alternativi, a quelli più melodici, tutto condito dal tocco psichedelico che li contraddistingue.

E’ il tour del magnifico album “Specter at the Feast” (clicca qui per leggere la recensione), che è stato suonato nella sua interezza, a parte Some Kind of Ghost. L’apertura è stata dedicata al primo singolo “Let the Day Begin”, cover dei The Call, gruppo in cui suonava il padre del bassista Robert Levon Been, nonché ingegnere sonoro della band, morto nel 2010, durante il tour del precedente disco.

 

Per tutta la prima parte del concerto il ritmo è stato altissimo e di qualità: sono stati suonati infatti molti singoli degli album passati, da Beat the Devil’s Tattoo, a Berlin, a Ain’t No Easy Way (con la mitica armonica di Peter), oltre ai pezzi più punk/rock del loro repertorio: Whatever Happened to my Rock’n’Roll, Rival e Hate the Taste. L’unico pezzo che ha spezzato il ritmo, se no la gente ci lasciava un polmone, è stata la classica Red Eyes and Tears, immancabile nei loro live. 

 

Poche parole, qualche “Thank you” qui e lì, Peter in un angolo già sudatissimo, Robert nell’altro con il cappuccio nero, Leah con i capelli davanti agli occhi che picchia sulla batteria, e riff dopo riff il concerto vola verso la parte centrale, in cui il ritmo rallenta, prima con Returning (prossimo singolo?), e poi con alcuni pezzi acustici in solo, prima Peter al piano per Feel It Now, e alla chitarra per la magica Devil’s Waitin’, e poi Robert alla chitarra per Mercy.

Momento nostalgico e toccante, rovinato solo da una massa di idioti ubriachi vicino a me che continuavano a parlare e a ruttare birra (Viva l’Inghilterra).
La parte finale vede un mix di canzoni vecchie e nuove, tra cui spiccano la psichedelica Fire Walker e la punkettona Teenage Disease, in cui Peter rischia ogni volta seriamente di rimetterci la voce. La prima parte si chiude con la canzone che forse li rappresenta più di tutte, ovvero “Spread Your Love”, che manda tutti in delirio.


Piccola pausa prima delle ultime 3 canzoni, tutte prese dall’ultimo album: la lentissima “Sometimes the Light”, quella da accendino per capirci, il pezzo dai toni grunge “Sell It” e la lunga ballad “Lose Yourself”, dopo di che la band lascia il palco con Robert che saluta con un “Hope to see you again”.

Lo spero anch’io di rivedervi, perché ogni volta che ne avrò l’occasione non mancherò l’opportunità di vivere due ore di sano rock ‘n’ roll come queste, e di andare poi via dall’Accademy sudato, con le orecchie fischianti, con un sorriso ebete sulla faccia, con le scarpe che si appiccicano al pavimento, con qualche macchia di birra sulla giacca di pelle (bestemmie) e con il sottofondo di canti ubriachi e rutti corposi.
 

..Rock ‘n’ roll appunto.
Yeah!

Setlist:

01 Let the Day Begin; 02 Rival; 03 Red Eyes And Tears'; 04 Hate The Taste; 06 Whatever Happened To My Rock 'N' Roll (Punk Song); 07 Beat the Devil's Tattoo; 08 Ain't No Easy Way; 10 Berlin; 11 666 Conducer;                 12 Love Burns; 13 Returning; 14 Feel It Now; 15 Devil's Waitin'; 16 Mercy;  17 Fire Walker; 18 Teenage Disease;  19 Conscience Killer; 20 Lullaby; 21 Funny Games; 22 In Like The Rose; 23 Six Barrel Shotgun; 24 Spread Your Love;  25 Sometimes The Light; 26 Sell It;     27 Lose Yourself


giovedì 11 aprile 2013

THE MARS VOLTA – Noctourniquet



Chiudo con quest’album la mia personalissima trilogia dei migliori dischi del 2012.
E purtroppo questo è anche il canto del cigno di una (o forse LA) migliore band degli anni “00”.

Spero quindi che possiate perdonarmi per la prolissità, ma non posso non omaggiare una band che mi ha accompagnato e segnato per dieci anni.

Nati dalla scissione turbolenta della più significativa band post-hardcore degli anni ’90 - gli At the drive in (ascolta il loro capolavoro “Relationship of command”) - Omar Rodriguez Lopez (chitarra) e Cedric Bixler-Zavala (voce) danno vita ad una meravigliosa creatura, i Mars Volta appunto.


Il primo album (De-loused in the comatorium) è universalmente considerato il loro capolavoro. In cabina di regia c’era il padrino del rock dell’ultimo ventennio (RHCP-Blood sugar sex magic, SOAD – Toxicity, Audioslave) ossia il guru, Rick Rubin.
Comprendendo di avere tra le mani una gemma racchiusa in un magma grezzo e pronto ad esplodere, Rubin tenta di modellarla, dando alla sua creatura una parvenza di forma, quella che lui riteneva più accessibile nonostante l’asprezza e la novità del sound.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: un’opera straordinaria che a dieci anni dalla sua uscita suona ancora sorprendente ed accattivante allo stesso tempo.

Le esperienze successive dei Mars Volta sono contraddistinte da una cambio di rotta sia nella produzione (tutti gli altri album saranno ad opera del solo Omar) che nel risultato. I cinque capitoli successivi si alternano tra alti (Amputechture) ed anche qualche basso (Octahedron) non riuscendo però più a sintetizzare compiutamente energie e sound in una proposta definita e perfettamente godibile.
Più che progressive-rock, infatti, queste sono state tutte opere per affezionati e fan del genere-Mars Volta, molte delle quali concept album con testi criptici ma anche sonorità ammalianti.


E finalmente arriviamo al 2012.
Noctourniquet sarebbe stato a mio avviso, l’album della svolta, rimanendo invece (per ora) solo l’ultimo capitolo (e vero e proprio canto del cigno) di una band immensa.
Lo considero infatti l’LP della maturità in cui le derive “lisergiche” e deliranti dei due di El Paso (Texas) hanno modo di trovare la pace.

Non c’è più rabbia furiosa fine a se stessa. E neppure ghirigori ed artifici sonori impenetrabili.
Certo stiamo sempre parlando dei Mars Volta e quindi la forma-canzone risulta necessariamente snaturata e stravolta, ma come dire.. ci siamo!
Non bisogna mettersi di impegno e dedicare mesi di ascolto per riuscire a digerire una matassa di idee e convulsioni ritmiche imperscrutabili.
Siamo alla summa del progetto Mars Volta.



Melodia e virtuosismi tecnici si vengono incontro e grazie ad un forte ma equilibrato (nonché del tutto nuovo) apporto di elettronica, si giunge ad un'equazione vincente e splendente.

E’ un album “controllato”, ricchissimo come sempre di spunti e idee sconvolgenti: come se si creasse un mondo immaginifico all’interno del quale ognuno ha la possibilità di ritrovare il proprio.

I brani sono dei piccoli microsistemi in cui riscontrare una moltitudine di canzoni l’una all’interno dell’altra. Una vera e propria giungla di suoni e sommovimenti dell’animo.
Insomma, non c’è alcun modo di restare indifferenti a Noctourniquet.

L’aspetto vincente di questo capitolo sta però nella fruibilità (rispetto al passato!) ed anche nella melodicità (che già s’era vista in alcuni episodi precedenti es. Televators, The Widow, Since I’ve been wrong) che permea costantemente i brani.
L’album si caratterizza nella prima parte per un crescendo di radiosa bellezza (quella dei grandi capolavori), dove l’esaltazione musicale giunge fino all’apice di “In Absentia” ed “Imago” per poi tornare, nella seconda parte, ad una normalità più gestibile.

Come in ogni opera dei Mars Volta, per quanto meraviglioso, è quasi inutile comprendere la portata di un singolo brano se non accompagnata dall’ascolto dell’intero album.

L’ho già detto, ma lo ripeto con convinzione.
Questo è l’album del 2012.
Addio Mars Volta.
O forse solo arrivederci.

Voto: 9

giovedì 4 aprile 2013

AFTERHOURS - LIVE - “ESTRAGON” (Bologna) - 02 Marzo


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Recensione a cura di Luca S.

1° DATA - PADANIA TOUR  - 2013 
Ancora un’occasione (l’ennesima per il sottoscritto) per “tastare” il polso alla storica band milanese: 1 ora 45 min volati via in fretta.
C’è poco da fare, piacciano o no, simpatici o meno, dal vivo raramente sbagliano un colpo.
Agnelli & Co. Si presentano sul palco in veste bianco angelico e con piglio “teatrale”, cercando di colpire il pubblico anche con l’impatto visivo e non solo quello sonoro.



Si parte con Padania e Agnelli con chitarra acustica, per poi lasciar strada allo sprigionarsi d'energia di chitarra, basso e batteria (ah…Xabier Iriondo fantastico alla chitarra!).: una vera ondata di suono quando le tre chitarre assieme a basso e violino schiacciano il piede sui pedalini. 
Scaletta niente male. Un giusto mix tra recente e passato, anche se alla fine ai fan mancheranno almeno un paio di pezzi storici (saltati a piè pari: Piccola iena, Quello che non c’è, Bye bye bombay, Pelle, Dentro Marilyn, etc..)
Dal vivo i pezzi dell’ultimo disco (Padania) sembrano quasi esser almeno un tono più alto per l’attuale livello di voce di Agnelli che spesso va in affanno pur riuscendo a giostrarsela con grandissima esperienza, mascherando qua e là con pause, acuti e falsetti.
Comunque sia, ne è valsa ancora una volta la pena.
Per chi non li conosce, questo tour è sicuramente una bella occasione per apprezzarli (dal vivo molto di più rispetto alle ultime novità in studio).
Per i Fan storici, un’occasione per riassaporare con qualche novità i suoni e la voce di un gruppo che nel panorama Italiano si è fatto largo ed ha scritto un bel pezzo di storia.
Insomma, proprio come ritrovarsi con dei vecchi amici al bar per bere una birra e scoprire che il tempo passa, le cose cambiano, ma certe sensazioni non mutano così facilmente.

VOTO: 6,5