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venerdì 17 maggio 2013

JACK WHITE - Blunderbuss (2012)

 


Beh, non è semplice recensire il buon vecchio Jack. 
Va a finire sempre che prima o poi la spunti lui.
Ma stavolta sarò più accorto, lo prometto.


Blunderbuss (trad. l'Archibugio) è il primo album solista di John Anthony Gillis, meglio noto come Jack White.  
Dopo lo scioglimento dei White Stripes e le varie esperienze con i The Raconteurs ed i The Dead Weather decide finalmente di dare alla luce la sua prima creatura a suo nome.  
"[...]un album che non avrei potuto pubblicare prima di oggi. Ho evitato di pubblicare dischi a mio nome per molto tempo, ma ho l’impressione che queste canzoni possano essere presentate solo a mio nome.  
Sono state scritte da zero e non hanno avuto nulla a che fare con altro che non sia il mio modo di esprimermi, i miei colori e la mia tela...". 

L'album è stato concepito e realizzato da Jack nella sua Nashville, dove ha sede la Third Man Records - label di cui è fondatore e proprietario e dove ha costruito il suo rifugio: uno studio di registrazione che pare sia un'autentica meraviglia dell' “analogico”, in totale controtendenza con i tempi e proprio per questo in pieno stile White.
Ad accompagnarlo è un cast d'eccezione: voci femminili (la ghanese Ruby Amanfu in Love Interruption, Karen Elson - ex-moglie di White), l'incredibile pianista Brooke Waggoner (cui forse va il merito di rendere frizzanti molti brani altrimenti meno tesi), il contrabbassista Bryn Davis ed infine un'intera band: Pokey La Farge & South City Three

La maggior parte di questi sono presenti anche nel tour dando luogo a due veri e propri gruppi divisi per genere: uno di uomini, l'altro di sole donne.
E pare che sia lo stesso White a colazione a decidere (immagino a seconda dell'umore) chi suonerà la sera.

Le aspettative quindi non potevano che essere altissime: in fondo stiamo sempre parlando della mente più illuminata del rock/blues degli ultimi dieci anni.
Non c'è infatti collaborazione o progetto che veda la sua partecipazione che non abbia un seguito planetario e che soprattutto non contribuisca ad ispirare nuovi sentieri per l'intera
scena rock.


Jack, questo bisogna dirlo, è un vero e proprio maestro del suono.




Oltre ad essere un polistrumentista (batteria e chitarra oltre a piano e naturalmente voce) è anche uno di quelli che possiamo definire “oltranzista del genere”: con lui insomma non si corre il rischio di strabordare dal blues-rock senza però che questo porti a risultati stantii o al rischio di scadere nel già sentito.


La sua è una ricerca costante ed i risultati sono evidenti anche da un semplice confronto tra il sound grezzissimo (chitarra e batteria) degli esordi con i White stripes ed il barocco classicheggiante di quest'ultima opera.

Ormai White viene universalmente considerato (giustamente) come un guru del genere e nonostante ciò, lui sembra sempre conservare il suo fare altero e dimesso: lontano dallo star system, ma senza per questo spingersi fino allo snobismo o a disprezzare collaborazioni “scomode” (ad es. con Alicia Keys o con Danger Mouse) per semplici questioni di integrità di “genere”.




Blunderbuss in un certo senso è la sintesi di tutto questo.


E' un album ricchissimo di generi, un estratto di esperienze molto eterogenee tra loro, mischiate in un pot-pourri dal gusto agrodolce.




Il motivo conduttore è certamente il blues rivisitato in chiave White, con l'aggiunta di un po' di country ed un pizzico di soul/swing anni '60.
Il tutto condito dalla solita vena rockettara di Jack che maschera le note più aspre e rende il tutto estremamente digeribile e moderno.


La prima parte dell'album è letteralmente indimenticabile.


I primi sei brani sono dei veri capolavori di genere (faccio davvero difficoltà a scegliere il migliore (forse Love interruption)
"I want love to roll me over slowly
Stick a knife inside me
And twist it all around.".

In ogni caso contribuiscono a rendere Blunderbuss un'ottima opera prima.




Peccato però per la seconda parte (e qui viene fuori il mio lato poco “americano”).


Da qui in poi infatti, a mio parere i brani, benché gradevoli, diventano un po' faticosi ed a tratti sembra che la macchina White inciampi in piccoli tranelli di stile.


Niente di grave sia chiaro, stiamo sempre parlando di un grande LP. Ci sarebbe anzi davvero bisogno di almeno un paio di album così all'anno per far riprendere un po' di fiato al rock.


Ma la realtà è che questa sarebbe potuta essere davvero un'opera incantevole, se solo Jack non si fosse lasciato andare a piccoli manierismi che dopo un po', effettivamente, lasciano del dolciastro in bocca. 

E questo nonostante la simpatia nei suoi confronti che a tratti, lo ammetto, degenera in vera e propria venerazione.

Al diavolo Jack, non riuscirai a farmi dire che è un capolavoro! 
Blunderbuss è (solo?) un ottimo album.
Col rischio (questo è chiaro lo so) di essere smentito.


Ancora una volta.

VOTO: 7

Tracce

1. Missing Pieces – 3:27 
2. Sixteen Saltines – 2:37 
3. Freedom At 21 – 2:51 
4. Love Interruption – 2:36 
5. Blunderbuss – 3:06 
6. Hypocritical Kiss – 2:50 
7. Weep Themselves To Sleep – 4:19 
8. I’m Shakin’ – 3:00 
9 Trash Tongue Talker – 3:20 
10. Hip (Eponymous) Poor Boy – 3:03 
11. I Guess I Should Go To Sleep – 2:37 
12 On And On And On – 3:55 
13 Take Me With You When You Go – 4:10

domenica 12 maggio 2013

TRAIL OF DEAD - Live report (26.04.13- o2 Academy - London)



Recensione e foto a cura di Fabio S.

Concerto dei Trail of Dead, ovvero al mio 3 scatenate l’inferno”.
La o2 Accademy di Islington è piuttosto piccola, e per l’occasione non era neanche pienissima, ma me lo aspettavo, stiamo parlando infatti di un gruppo che non ha un grandissimo pubblico, soprattutto in UK e in Europa (sicuramente va meglio a casa loro) e ogni volta che lo nomino a qualcuno (il nome completo è ...And You Will Know Us By The Trail of Dead) la riposta 8 volte su 10 è: “Chiiiii??? E che suonano??”.
Suonano alternative / post hardcore, ma dargli un’etichetta non è così semplice, alcuni loro album sono dei concept in cui c’è molto art e progressive rock.  
Tao of the Dead (2011) è considerato dalla critica il loro miglior album, anche se io personalmente considero Worlds Apart (2005) un piccolo capolavoro del genere. Due album stupendi che consiglio di ascoltare a chi voglia avvicinarsi a questa band.
I 4 texani salgono sul palco con le facce da bravi ragazzi, puliti, ordinati, con addosso jeans, maglietta, e scarpe classiche. Capelli corti pettinati, niente orecchini, niente piercing, un paio di tatuaggi appena visibili, una bottiglietta d’acqua a disposizione. Roba da rendere fiere tutte le mamme del mondo. Prendono posto, il batterista batte il tempo con le bacchette e.... dal quel momento sarà devastazione per tutta la durata del concerto.


Volano in aria i primi bicchieri di birra e alcune ragazze tranquille che si erano appostate in prima fila dopo un paio di minuti sono costrette a rifugiarsi in un angolo per evitare di essere travolte dai pogatori a briglia sciolta.
Sul palco il delirio: Jason Reece e Jamie Miller si scambiano di posto, chitarra e batteria, ad ogni canzone, e fanno a gara a chi picchia di più con le bacchette, e sono uno più bravo dell’altro, le rullate di Jason soprattutto sono assolutamente fantastiche. Il bassista, Autry Fulbright II, si butta all’indetro sul palco o in avanti sulla prima fila, improvvisando qualche mossa alla Jimi Hendrix con lo strumento dietro la testa (più scena che altro). Conrad Keely (chitarra e voce) è sudato da far schifo dopo soli 10 minuti, cambia in continuazione chitarra, si butta su quelli in prima fila e spinge i suoi amici ridacchiando.


Il repertorio è grande, grazie ai loro 8 album, e cercano di coprire un po’ tutta la loro carriera fino a questo momento, senza prediligere troppo l’ultimo album (non recentissimo, ottobre 2012) di cui suonano solo 3 canzoni, tra cui spicca Catatonic, resa molto più lunga e cattiva della versione studio. Non mancano i classici come It Was There That I Saw You, con cui aprono, o la bellissima Will You Smile Again?, e ancora Caterwal e Isis Unveiled.
Basta poco a capire che il pazzo più furioso è Jason, che sicuramente aveva esagerato con qualche drink. Presenta ogni canzone con: “e questa si intitola Fuck You”, fa continuamente gestacci e smorfie, e ogni tanto fa fatica a sbiascicare le parole. Fa stage diving con la chitarra, stacca il cavo e la lancia sul palco dove il fedele assistente del gruppo la prende, la riattacca e continua a suonare. Proprio l’assistente è quello che ha da fare più di tutti. Sembra una maestra d’asilo, ha il compito di assicurarsi che i suoi bambini non si facciano male e che abbiano tutti i loro giocattoli pronti e funzionanti. Corre da una parte all’altra a sbrigliare cavi, raccogliere bacchette e chitarre volanti e ad accordare gli strumenti. 
Ed è anche costretto a sgridarli, perché Jason (sempre lui) alla fine del concerto allunga la sua chitarra verso un tizio in prima fila che incredulo allunga le braccia per prenderla, ma la maestra interviene, afferra con forza lo strumento e dà un’occhiataccia al membro del gruppo come per dire “ma che ca**o stai a fà”, e Jason si ritira dietro le quinte con la coda tra le gambe.
Avevo letto che i concerti dei Trail of Dead sono molto energici, ma non mi aspettavo fino a questo punto. Live sono tutta un’altra band, usano il palco come sfogo a tutta l’energia che evidentemente sono costretti a contenere in studio. Le canzoni sono quasi irriconoscibili, e perdono tutta la componente melodica presente negli album. La melodia non gli interessa affatto, tant’è che non si portano neanche il piano sul palco. Mentre le canzoni in studio sono molto studiate, e presentano tanti piccoli dettagli, live diventano grezzissime, con chitarre molto distorte, feedback e batteria tartassante.

Sul palco vogliono fare un disastro, e ci riescono, perché molti tra il pubblico finiscono il concerto fradici di sudore e con qualche livido. Se si è quindi un amante del pogo sono imperdibili, ma chi ha voglia di riprovare live le stesse sensazioni che si provano ascoltando i loro album resterà deluso, perché non gli sarà concesso neanche un minuto di pace. A fine concerto le orecchie fischiano e si va via con qualche dubbio. Ok lo show, l’energia, il delirio, ma bisogna storpiare così tanto il proprio suono? Mah!

venerdì 3 maggio 2013

SOUNDGARDEN – King Animal (2012)



 Ho un simpatico ricordo legato ai Soundgarden.

Era il 1998. Avevo raggranellato dei soldi con un lavoretto estivo ed era mia intenzione spenderne una buona parte esclusivamente per me. In fondo me l’ero meritato.
Scelsi di dare sfogo alla mia passione musicale e quindi decisi di comprare alcuni Cd, ma all’epoca non avevo assolutamente le idee chiare (adesso forse un pò in più..beh..neanche poi tanto ;-) ).
Era mio desiderio però prendere dei capisaldi del Rock, o almeno così avevo sentito dire che fossero.


La mia scelta cadde su 3 esempi di generi diversi: il Punk con il primo ed omonimo album dei “The Clash”; l’hard rock con il doppio ed epico “Made in Japan” dei Deep Purple.
Ma con ultimo, ero davvero indeciso.
Beh sì insomma all’epoca non c’era granché modo di informarsi se non con il passaparola o spendendo altro denaro in riviste specializzate.

E soprattutto, a parte copie piratate, non c’era assolutamente modo di fare un ascolto di prova (di radio rock dalle mie parti non c’era/è neanche l’ombra) tanto che per me fu un vero e proprio fulmine a ciel sereno scoprire successivamente che in “città”, presso i grandi rivenditori musicali, era possibile avere liberamente delle brevi preview dagli album!

Le mie intenzioni però, quelle sì, erano ben chiare.
Volevo qualcosa di fresco, di una band relativamente nuova, che però già aveva “segnato la strada”.
Tra i pochi CD in vendita vidi la conturbante ed oscura copertina di questa band di cui avevo sentito parlare, ma di cui sapevo ben poco.
Era “Down on the upside” dei Soundgarden.

Beh, come avrete intuito mi andò davvero bene.
Mi abbeverai della musica profusa da quegli album per tutti gli anni a seguire, fino a consumarli letteralmente ed a non poterne davvero più.

 


Con i Soundgarden, però, fu davvero amore a prima vista.
Era un album particolare quello. Con suoni per me nuovi (grunge?). Dolce ed aggressivo allo stesso tempo, insomma, il massimo!

Ed ora veniamo a noi.
Sedici anni dopo l’uscita di quel CD (io lo comprai due anni dopo..) i Soundgarden hanno dato alle stampe il suo successore “King Animal”.


Di acqua sotto i ponti ne è passata davvero tanta e tutti i componenti (chi più chi meno) hanno avuto grandi e tante esperienze diverse (es. Audioslave e Pearl Jam su tutti).
Io poi non sono prevenuto sulle reunion.
Anzi, abitualmente mi piacciono molto perché offrono la possibilità di vedere come evolve il sound di una band, di ascoltare qualcosa di nuovo da musicisti che si è amato, oltre che naturalmente, per la possibilità di vederli dal vivo.
I Soundgarden poi, sono tra le poche band che hanno conservato quasi dall’inizio la line-up originale.
Insomma le premesse c’erano tutte.

E qual è il risultato finale? Beh mi costa davvero molto dirlo (anche perché in fondo a me piacciono sempre e comunque), ma King Animal non è un album indimenticabile.

Lo si ascolta però con grandissimo piacere.
La voce di Chris (Cornell) non è paragonabile a quella degli esordi, ma resta comunque il miglior cantante rock in circolazione.
E’ evidente poi la sua mano compositiva dietro i pezzi più significativi dell’album, tra cui spicca sicuramente la bellissima ballad “Bones of Birds”.

 

Il sound, specie di Kim Thayil alla chitarra, ci riporta poi direttamente a quel 1996.
Proprio come se non fosse passato tutto questo tempo. E lo si può apprezzare in particolare negli assoli e stacchi di “By crooked steps” o nel riff indianeggiante di “A Thousand days before”.


La sezione ritmica infine, è davvero in grandissimo spolvero.
Matt Cameron sembra il fratello ringiovanito di quello che siede dietro le pelli nei Pearl Jam. Ci sono idee e tempi davvero curiosi che meritano di essere approfonditi in quasi tutti i brani.
Ben Shepherd poi, oltre a conservare sempre il suo mood da biker incazzato, propone spunti assolutamente degni di nota (vedi es. il riff portante dell’ultima traccia blueseggiante – Rowing).

E allora, vi chiederete, cosa c’è che non va? Ti è piaciuto praticamente tutto!
Lo so. Ma la verità è che purtroppo dai Soundgarden ci si aspetta sempre qualcosa in più.
Qualcosa che, come in quell’ormai lontano 1996 “
segni” di nuovo la strada per l’avvenire di questo rock (un bel po’) malconcio.
E King animal non ha la caratura per esser ricordato come tale.

A parte By crooked steps e Bones of Birds infatti, è difficile che altri brani passino alla storia o che vengano semplicemente ricordati nei prossimi anni. Di sicuro questo è un album dei Soundgarden. Il tracciato è il medesimo. Il sound anche. E le sensazioni che è capace di trasmettere sono (per me fan) davvero positive.

Ma io preferisco considerarlo come il nuovo capitolo di una storia che ricomincia.
Un nuovo inizio insomma.
E come tutti gli inizi, si perdonano anche piccoli errori e (soprattutto) si spera nel futuro.

In ogni caso, è innegabile l'immenso piacere che si prova nel sentir ruggire di nuovo i maestri di Seattle.

Alla prossima ragazzi e.. mi raccomando.. ;-)

Voto: 6,5